Who let Acetaldeide out?

Who let Acetaldeide out?

Il Nerd Corner di Anna

Who let Acetaldeide out

 

Era un po’ di tempo che volevo affrontare un argomento spinosetto e antipatico anche per gli addetti ai lavori, e sommariamente poco noto al grande pubblico: in fondo abbiamo affrontato temi assai “robusti” sulle pagine del Nerd Corner, ivi comprese le recenti escursioni in terra di dunder e muck: oggi torniamo su quei dettagli che, lungi dall’essere insignificanti, sono il vero contorno di un buon progetto di fermentazione e distillazione, e, vedremo meglio, anche di maturazione.

 

A come Acetaldeide

A come Acetaldeide, primo byproduct che si forma quando parte una fermentazione, spontanea o, in misura maggiore, con inoculo di lieviti: è l’aldeide prodotta in maniera più massiccia (80-90%), ed è un risultato diretto del metabolismo dei lieviti, che nella prima fase fermentativa, cominciano a scindersi e moltiplicarsi. È un composto estremamente volatile ed olfattivamente attivo, dal caratteristico odore di mela verde appena tagliata, tanto che la sua soglia di percezione viaggia sotto i 100 mg/litro: da un punto di vista fisico, è il precursore della formazione dell’etanolo (il quale è un frutto dell’ossidazione dell’acetaldeide), insomma l’elemento che ci dice se effettivamente una fermentazione è iniziata bene e sta procedendo per il meglio, ed è per questo che possiamo definirla un vero e proprio termometro del nostro lavoro.

 

 

Come funziona allora la sua produzione in una fermentazione? Il lievito non arriva a produrre in modo autonomo la alcol-deidrogenasi (ultimo passaggio di degradazione dall’acetaldeide all’etanolo), e fino al momento in cui non viene attivata la sintesi enzimatica, il lievito cerca di accumulare acetaldeide, ecco perché essa è più presente nelle prime fasi fermentative. Allo stesso tempo, non potendo ripetere la catena di ossidazione, il lievito risulta sbilanciato: per continuare a mangiare zuccheri, la cellula ha bisogno di NAD+ (nicotinammide adenina nucleotide, coenzima in forma ossidata caricato positivamente, che interviene nelle fasi di digiuno cellulare), e per ottenerlo attiva quella che chiamiamo fermentazione gliceropiruvica, producendo glicerolo (attivando un altro enzima, Gpd2). Questo tipo di fermentazione può toccare l’8% degli zuccheri totali e dà come prodotto finale il glicerolo, quello che spesso dona ai nostri distillati una caratteristica che chiamiamo “morbidezza”, e di solito è una conseguenza dell’innalzamento dell’altra soglia, quella degli alcoli superiori o volatili, di cui fa parte l’acetaldeide. Questo ci induce a comprendere che l’acetaldeide e il glicerolo sono interessanti, e possono collaborare a rendere più “gustoso” e “profumato” il nostro distillato, ma sono assolutamente da amministrare in modo corretto, e questo può avvenire solamente con una adeguata nutrizione dei lieviti nella prima fase della fermentazione, per poter permettere un accrescimento totale di questi composti “interessante” ma non eccessivo: oggi esistono molti prodotti di nutrizione tecnica dei lieviti, che operano in base al ceppo, alle condizioni di fermentazione ed addirittura al risultato che si vuole ottenere, come Lafort, Enartis, Lallemand, per citarne solo tre.

 

Lo stato di salute della fermentazione

Come facciamo per sapere se tutto procede bene nella nostra fermentazione? In assenza di un laboratorio chimico disponibile ogni giorno, l’unico strumento affidabile rimane il nostro naso, che dovrà in buona misura essere allenato a soglie di percezione della nostra amica “A” sempre più basse: infatti, man mano che l’etanolo viene svolto dai lieviti, assisteremo ad una progressiva riduzione dell’acetaldeide nel nostro wort, e ad una incrementale produzione di etanolo, possibilmente con una piccola e iniziale produzione di glicerolo. Fare un buon lavoro a livello di fermentazione è importantissimo anche per la salute delle persone che berranno il nostro prodotto: infatti quando si beve alcool, il nostro fegato trasforma l’acetaldeide in un acido. Parte dell’acetaldeide entra nel sangue, danneggiando le membrane e causando piccole ferite e conseguenti cicatrici tissutali. L’A. è anche quella che è responsabile dei famosi postumi da sbornia e può provocare battito cardiaco accelerato, mal di testa e mal di stomaco.

 

 

 

Per questo motivo, molti rhum che hanno una consistente quota di parti non-alcool, come ad esempio i giamaicani, ci risultano più “pesanti”, e ci sono resi più interessanti e “digeribili” se presentati ad un grado alcolico sopra i 55% ABV al quale le parti volatili, come le aldeidi (tra cui la nostra a.), i terpeni, gli esteri, i chetoni, sono in grado di dare loro carattere ed allo stesso tempo slancio.

Infine, per quanto sia impegnativa da amministrare, l’Acetaldeide è un composto che io ritengo aromaticamente molto interessante anche nella fase di invecchiamento di un rhum agricole: le note fresche e acidule che la contraddistinguono e che passano, fotografate, dalla fermentazione alla distillazione, saranno, se il legno scelto per la maturazione possiede uno spettro terpenico adeguato, mantenute ed in parte esaltate, riuscendo, nello stesso tempo, a temperare l’azione dei tannini del legno, e producendo, negli anni, distillati dal carattere floreale, fruttato e morbido: insomma, è un falso nemico che, nella gestione “moderna” della produzione di un distillato risulta invece un grande alleato per poter ancora una volta restituire al “terroir” anche ciò che passa dal legno di una botte.

 

 

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