Ne ho parlato in più occasioni. In America la fermentazione per il Bourbon whiskey è tradizionalmente effettuata con la tecnica del Sour Mash, cioè con l’aggiunta al mosto di componenti acide provenienti dalle lavorazioni precedenti. Lo scopo è di abbassare il pH della fermentazione per proteggerla da proliferazioni batteriche indesiderate e per fornire nutrienti al lievito. Una necessità in un ambiente – come quello del Kentucky – dove le temperature sono mediamente molto più alte rispetto a quelle scozzesi.
La tecnica più diffusa, ma non l’unica. La modalità originale di fermentazione, quella “normale” portata dagli europei, prevedeva il solo utilizzo di materie prime “fresche”: il mosto, il lievito e null’altro. È quella utilizzata in Scozia e – su suolo americano – prende il nome di Sweet Mash.
Con l’ascesa del movimento delle piccole distillerie artigianali negli Stati Uniti e del desiderio di guardare indietro nella storia della produzione di whiskey, ci si è chiesti se il “monopolio” del sour mash sia una reale necessità produttiva o semplicemente la strada più sicura (cioè più efficiente) prescelta dall’industria. Non vi è dubbio su chi ha portato il metodo del Sour Mash alla ribalta e standardizzato la pratica. Per molti anni, James C. Crow è stato accreditato come l’inventore del processo di sour mash, intorno al 1838. Tuttavia, la Kentucky Historical Society ha scoperto un documento, datato 1818, che presenta due ricette scritte a mano. Su un lato c’è la ricetta per il whiskey sweet mash e sull’altro quella per il sour mash. Pur non essendoci alcun riferimento all’autore, il documento è stato attribuito a Catherine Carpenter.
Catherine era una vedova e madre di 12 figli che gestiva una fattoria nella Contea di Casey, nel Kentucky, e l’annessa distilleria. Ma, tanto per confondere le acque, tra i documenti della famiglia Carpenter c’è la prova documentale che Catherine non sapeva né leggere né scrivere. I ricercatori sono giunti alla conclusione che fu Catherine a farla scrivere da qualcun altro, per i posteri.
James Crow era un medico e chimico scozzese che, trasferitosi nel Kentucky nel 1823, iniziò a lavorare come distillatore. Anche se Crow non ha creato il metodo del sour mash, ha preso la ricetta di Catherine Carpenter, l’ha perfezionata e industrializzata per produrre grandi quantità di whisky di qualità e con caratteristiche costanti.
Il sweet mash
Come anticipato, a differenza del sour mash, il processo di sweet mash non utilizza alcun backset durante la fermentazione. I distillatori cuociono semplicemente i cereali con l’acqua, aggiungono il lievito e lasciano fermentare.
Poiché l’assenza di backset aumenta il rischio di proliferazione di batteri nocivi, tutte le attrezzature devono essere tenute perfettamente pulite. Questo è il motivo principale per cui il sour mash è diventato un processo di produzione più popolare rispetto al sweet mash, due secoli fa c’era una totale mancanza di conoscenza sui germi e sulle pratiche di igiene.
Un altro potenziale svantaggio introdotto dalla mancata aggiunta del backset è lo sviluppo di una fermentazione più difficilmente controllabile e la produzione di una “birra” con una qualità non costante, lotto dopo lotto.
Perché fare Bourbon con un sweet mash?
Il termine “sweet” non significa che il mosto contenga più zucchero, ma semplicemente che è meno acido. Dal punto di vista della produzione, il bourbon sweet mash sembra altamente sconsigliabile. I distillatori devono prestare maggiore attenzione alla fermentazione e devono assicurarsi che i batteri non si diffondano. Devono quindi implementare standard di pulizia e di sanificazione immacolati.
Il legame tra la pulizia della strumentazione e il tipo di fermentazione era così forte che, nei testi storici, un tino pulito e non contaminato veniva chiamato “tino dolce”, a differenza di un “tino sour” che invece non era sterile e poteva contenere tracce delle lavorazioni precedenti.
Oggi, gli aspetti negativi del sweet mash sono superati dalla tecnologia moderna che consente un maggiore controllo sulla lavorazione. Avviare ogni lotto come “fresco” e “pulito” permette ai distillatori di avere un controllo totale sull’apporto di ogni singolo ingrediente. Inoltre, si possono utilizzare temperature più basse, riducendo così gli oli di flemma, con il risultato di ottenere un distillato più morbido al palato, “meno pesante”, e di far risaltare gli aromi naturali dei cereali.
E un new make più pulito è la migliore base di partenza per un whiskey con complessità superiore. Requisiti che consigliano l’ingresso in botte ad una gradazione più bassa, il che porta ad una maturazione meno coprente, le botti – per disciplinare – devono sempre essere di rovere vergine e carbonizzate.
Tutte qualità che giustificano ampiamente il tempo “sprecato” per la pulizia maniacale degli impianti.
Chi usa il sweet mash?
Sweet mash o sour mash? Uno non è migliore dell’altro, sono solo due stili diversi. Il backset raddrizzerà sì ogni fermentazione, ma sicuramente introduce un rumore di fondo, una alterazione degli aromi primari non presente nella fermentazione “dolce”, che restituisce un whiskey più stratificato.
Ai sempre più diffusi imbottigliamenti di sweet mash bourbon craft, iniziano a fare eco anche imbottigliamenti delle distillerie “mainstream”.
Se la tradizione vuole che un Bourbon Whiskey derivi da un Sour Mash, al contrario di un Rye Whiskey normalmente ottenuto da un Sweet Mash, cosa dobbiamo aspettarci dalla bevuta di un Sweet Mash Bourbon Whiskey?
Ho assaggiato in distilleria il Woodford Reserve Sweet Mash Redux, edizione limitata del 2015, mashbill classico 72% mais, 18% segale, 10% malto. Al naso quercia dolce, mela speziata, qualche grano di pepe aromatico e una nota erbacea. I tipici aromi di caramello e di vaniglia del bourbon arrivano solo in seconda battuta. Al palato la nota di segale è seguita dal rovere dolce e dalla cannella. Si presenta piuttosto speziato per un bourbon a 90.4 proof. Si percepisce anche una leggera nota vinosa, di brandy. Il finale è di media lunghezza, con un mix di caramelle alla frutta e vaniglia. Nonostante la giovane età, la sensazione era quella di trovarsi di fronte ad un Bourbon molto più maturo, senza però la “sgradevole” componente bruciata della botte (nota di bbq) e la coprente menta. Insomma, più frutta e zero opulenza, una ricetta assemblata da uno chef che ha preparato un piatto raffinato, utilizzando i migliori ingredienti, freschi e cucinati con precisione.
Di seguito alcuni imbottigliamenti con evidenziata la dizione “Sweet Mash”.