Sao Tomé, l’Africa antica dei Portoghesi

Sao Tomé, l’Africa antica dei Portoghesi

In preparazione al master WCI sul Rum Delle Coste Africane, oggi vi parlo di un viaggio, che è stato quasi un viaggio nel tempo, fatto tre anni fa a Sao Tomé e Principe, isolette a largo delle coste Africane, situate sotto l’arco protettore del Golfo di Guinea, di fronte al Gabon.

Non avevo una idea precisa di cosa avrei trovato, ma, dopo i mille andirivieni nelle isole dei Caraibi, volevo tornare indietro alle radici del cammino lungo e laborioso della canna da zucchero dall’Europa, passando per l’Africa sino alle coste delle Antille, dove ha infine trovato casa e dato vita agli antenati dei rum che oggi riempiono i nostri bicchieri.

 

 

Ho viaggiato per la prima volta con Michele, che ora è il mio compagno, anche lui innamorato della canna da zucchero da sempre, ed in una fase di pausa della sua vita lavorativa: entrambi siamo approdati sull’isola con l’aspettativa di tornare ad un punto zero che ci facesse ripartire con più consapevolezza e slancio nel nostro lavoro.

 

Sao Tomé e Principe

Sao Tomé e Principe è un arcipelago di circa 20 isolette, le cui due maggiori sono São Tomé e Príncipe, distanti circa 140 km tra di esse, e comunicanti via barca. Le isolette dell’arcipelago sono tutte parte della catena vulcanica sottomarina oggi quiescente nota come linea vulcanica del Camerun. Tra di esse, l’isoletta Das Rolas, di soli 3 km² ed a 2 km a sud dell’isola di São Tomé, è il punto più meridionale dell’arcipelago e del Paese, trovandosi sulla linea dell’Equatore, tanto da ospitare una pietra miliare che marca il confine tra i due emisferi.

 

 

Sao Tomé prende il suo nome dal santo protettore del Portogallo, ed infatti fu scoperta dai portoghesi proprio nel giorno in cui si commemora quel santo, il 21 Dicembre 1471: è stata colonia portoghese sino alla sua indipendenza, nel 1975, ed oggi è una repubblica presidenziale. Prima dell’arrivo dei portoghesi le due isole erano disabitate, ma da subito essi ne compresero l’importanza strategica: rappresentavano una base ideale per il commercio lungo la costa, quindi cominciarono a colonizzarle dapprima con galeotti e persone “indesiderabili”, tra cui molti ebrei: furono questi primi coloni ad accorgersi che le isole, grazie al loro terreno vulcanico, erano particolarmente fertili, ed il suolo risultava perfetto per le coltivazioni, tra cui, soprattutto, quella dell’allora tanto ricercata canna da zucchero.

 

 

A questi primi coloni i portoghesi cominciarono ad affidare le piantagioni che, per essere lavorate, necessitavano di molta mano d’opera, facilmente ed abbondantemente reperibile sulle vicine coste africane: la produzione di zucchero di qualità e dei primi aguardientes de cana locali furono la naturale conseguenza. Nelle “fazendas” si produceva senza interruzioni, ed a metà del XVI secolo la colonia figurava fra i primi esportatori di zucchero dell’Africa. Fu allora, per via d’interesse economico, che la corona portoghese decise di reclamare il diritto di proprietà sulle due isole, che arrivò rispettivamente nel 1522 e 1573. La ricchezza formidabile di quel commercio ebbe una graduale inversione di rotta in seguito allo sviluppo deciso della produzione di zucchero nelle colonie al di là dell’oceano, sino a che fu quasi completamente soppiantata, all’inizio del 1800, da due nuove colture, il cacao ed il caffé: restarono poche piantagioni e piccole manifatture che, ad oggi, completamente abbandonato lo zucchero, continuano a produrre aguardiente de cana di buona qualità, ancora distillato nei tradizionale alambicchi pot-still portoghesi denominati “testa di moro”.

 

La produzione di aguardiente de cana

Una di queste piccole produzioni aveva incuriosito un amico comune, che mi aveva portato, poco tempo prima, un campione da valutare: lo avevo trovato pulito, molto interessante per la sua trama aromatica dolcissima e vegetale, nonostante la bassa gradazione, e non vedevo l’ora di scoprire dove venisse prodotto, oltre che mettere i piedi in una piantagione di canne da zucchero “ancestrali”.

 

 

Sao Tomé ha strade impercorribili senza un 4×4, spesso manca l’acqua e l’elettricità, e si vive decisamente sotto la soglia della povertà: dopo una birra locale bevuta in strada davanti al negozio per via del vuoto a rendere, ci mettiamo in marcia, il secondo giorno di quell’avventura, verso la Fazenda che ospita la piccola produzione che desideriamo conoscere: il proprietario è un ingegnere locale, che, come vero lavoro, si occupa di un ufficio pubblico, ma ha il sogno di rendere questa microdistilleria più produttiva e di modernizzarla, espandendosi in una zona più a ridosso di una delle arterie principali di Sao Tomé.

Dopo mille buche e un paio di soste arriviamo in un luogo apparentemente deserto, popolato solo di galline con i loro pulcini, da qualche gatto e da un ragazzino che finge di guidare un rottame di vecchio trattore impantanato nel centro della stradina dove dovrebbe trovarsi il capannone della distilleria: improvvisamente si apre un portone arrugginito ed accediamo a due locali dove ci sono bottiglie dello stesso aguardente che avevo assaggiato, un bancone, ed una stanza con alcuni serbatoi. Veniamo accompagnati sul retro dall’uomo di fiducia dell’ingegnere, un certo Pepe, che ci mostra un primo spazio occupato da un mulino ad un solo rullo, mosso dal motore di una motoretta, che spreme un mazzetto di tre/quattro canne alla volta, in un solo passaggio, senza aggiunta di acqua, mentre l’olio del famoso motore cola da tutte le parti.

 

 

Comincio a pensare che è davvero un miracolo che il rum sia buono quando vedo i fermenter di plastica blu da 200 litri ciascuno. La fermentazione, in quell’area di Sao Tomé vicina alla foresta, alle piantagioni e ad una altitudine elevata, può beneficiare di un clima meno caldo (siamo intorno ai 25°C stabili) ma molto umido: questo permette di protrarre i tempi sin a toccare i 5-6 giorni, ovviamente senza aggiunta di lieviti selezionati, né controlli di alcun genere. Questi due ambienti sono semi-aperti, solo qualche asse li separa dalla vegetazione, così come la terza stanza dove campeggia un bellissimo alambicco “testa di moro” da 400 litri, che attivano una volta alla settimana per produrre, in doppia distillazione, un rum agricolo, o aguardente de cana, che esce dall’alambicco intorno ai 65% ABV e viene poi stoccato in bib sempre di plastica, posti al piano superiore della stanza dove eravamo stati accolti.

 

 

 

Prima dell’imbottigliamento, il “Rio D’Ouro”, questo è il nome del rum, preciso riferimento al fiume che scorre vicino, ed è parte integrante del terroir e della produzione, viene ridotto in grado, con acqua della sorgente di quel fiume, sino a 40% abv. Assaggiamo il rum in uscita di alambicco, e troviamo che sia strepitoso (e anche che sia un grosso peccato ridurne troppo la gradazione, ma tant’è).

 

 

Mentre le canne venivano spremute, ho potuto vedere che le varietà utilizzate per quella produzione erano tre, tagliate e defogliate a mano, e l’ingegnere si offre, l’indomani, di accompagnarci in quota, sino alla piantagione, per farmi vedere come crescono. La nuova odissea quel giorno inizia all’alba, ma ne vale davvero la pena: arriviamo in cima con il 4×4 serio dell’ingegnere, anche se a tratti ci sarebbero voluti i cingoli, e lo scenario è di una meraviglia indescrivibile: una vallata dalla pendenza che definiremmo “eroica” in Italia, ospita una piantagione rigogliosa e verdissima, nella quale le canne da zucchero, molto alte, vengono pulite a mano dalle erbe infestanti.

 

 

Le varietà che avevo notato il giorno prima sono diverse per colore e spessore del fusto, ma coltivate tutte insieme sullo stesso terreno che è ricco e scuro, umidissimo e fangoso a tratti, solo, la fascia più alta di quella collina viene riservata alla varietà dallo stelo più fine e dal colore più chiaro, chiamata “Caris”: veniamo aiutati nel procedere tra i filari dalla paglia delle foglie e delle erbe infestanti tagliate che funge da pacciamatura, e Pepe, che ci guida, taglia per noi con un machete le tre varietà per farcene apprezzare il gusto e gli aromi. Le altre due dallo stelo più spesso sono da loro chiamate Cana Roxa e Cana Verde.

La canna chiamata Caris è quella con il gusto più dolce, ed un sapore simile a quello di una pera molto matura e al miele, mentre le altre due hanno un gusto tra il vegetale ed il dolce della frutta tropicale. Vi confesso che dopo quella visita, uno dei miei sogni nel cassetto è rimasto quello di poter lavorare direttamente con quella varietà, e che ci eravamo talmente innamorati del luogo e di quella produzione da esser quasi seriamente intenzionati ad un imbottigliamento, e a dare un supporto attivo all’ingegnere, anche se poi le pastoie burocratiche e mercantili di Sao Tomé, e la saggezza di un signore che vi abita e vi produce, non senza difficoltà, il miglior cioccolato al mondo, tale Claudio Corallo, ci hanno un po’ riportato alla realtà.

A proposito, Claudio fermenta e distilla nei medesimi alambicchi il cacao su Principe, ma questa parentesi meriterebbe una storia a sé: la sua amabile compagnia e le sue piccole grandi opere d’arte sono state un dono in più di quest’isola selvaggia e dimenticata, un dono che non ci aspettavamo e che ci ha reso infinitamente più ricchi.

 

 

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