Strade senza fine: la Route Des Esclaves nell’arcipelago di Guadeloupe
Parte 2 – Grande Terre
“Schegge d’acqua
Rissose si spezzano
Dimenticando
La sabbia
Di ieri. Qui, si dice, giungano
Per morire le
Tartarughe: partono lente
Grandi narici piene
Di sale e smeraldo
Amati coralli e prati
D’alga a corteo, fino
A quest’unghia
Di nero alabastro
Puntata nel vento:
Al di là del mare,
C’è un cimitero
Di schiavi
A St. François.”Anna Ostrovskyj, Marie Galante, 2014
Scendiamo insieme, di nuovo, da Mayolette verso il litorale Caraibico di Marie-Galante, in direzione di Anse De Mays, sulla strada che si snoda ora brusca ora dolce, in curve solitarie, come un serpente nella foresta, fino al cartello che ci indica un’ultima discesa prima dell’Anse, quello del “Mon Massàk”, o Morne Massacre: il cammino è detto “Chemin De Vieux Fort”, e tutta questa zona, fu teatro, secoli prima dei fatti di Morne Rouge, di un episodio altrettanto cruento, non sporadico né isolato, inserito nel contesto delle lotte tra gli indigeni Arawak e gli eventuali pretendenti al dominio dell’Isola del Cotone, o Aulingaan, antico nome di Marie Galante: se il primo ad approdarvi fu certamente Cristoforo Colombo, successivamente, fu un manipolo di una cinquantina di coloni francesi a stabilirvisi, al comando del tenente Lefort.
Eressero una capanna su un promontorio circondato da una palizzata chiamata “Il Forte”, o forse nome e toponimo coincidevano per qualche ragione di semplificazione storica. Il luogotenente dovrà presto lasciare l’isola, lasciandovi una trentina di uomini, massacrati nel 1653 dagli indigeni Arawak per vendetta contro alcuni stupri da essi commessi nell’isola frontaliera, Dominica. Le loro teste furono infilzate su pali, a guisa di avvertimento, presso quel promontorio, sulla spiaggia chiamata con lo stesso nome, spiaggia del Massacro. Saccheggiato dagli olandesi, conteso tra francesi e inglesi, il Vieux-Fort, dopo aver subito un’occupazione inglese nel 1691, 1703, 1706 e durante la Guerra dei Sette Anni divenne parrocchia nel 1728. I domini francesi e inglesi si avvicendarono, ed anche ad una guarnigione inglese capitò di essere massacrata nello stesso luogo. Oggi resta un cartello, come da tradizione in doppia lingua, francese e creola, a ricordarci dove siamo.
Il silenzio del primo pomeriggio ci guida verso il litorale: a Marie Galante, dove c’è un “Mon”, c’è anche un “Trou”, la famosa spiaggia, cui si arriva un po’ a fatica con l’auto, per proseguire a piedi: c’è roccia nell’acqua, ed entrare non è agevole per via di un tappeto di ricci, ma entro, e nuoto sino al promontorio, in una sorta di acquario primordiale, dove pesci e crostacei di ogni dimensione e colore si muovono pacifici, indisturbati dalla mia presenza. Il promontorio è un dito di roccia, che apre le acque profondamente attorno a sé, quasi ad indicare qualcosa dall’altra parte del mare: sulla sua sommità c’è il cartello “Pointe Du Cimetière”. Ecco, questo sperone di roccia scura puntato dritto nel braccio d’acqua che separa Marie Galante e Grande Terre, da anni mi fa sussultare, un po’ come la piana di Mayolette: proprio là, tra Saint François e Moule, in direzione del suo scabro dito, solamente ad un’ora di barca, c’è un cimitero di schiavi, e l’ho potuto visitare solo quest’anno, in un piovoso weekend di Giugno.
Grande Terre è la gemella “piatta” di Marie Galante, l’ala destra del papillon Guadeloupe, quella che della Grande Galette condivide la conformazione geologica e, sicuramente, una storia antica e recente altrettanto spaventosa e crudele: anche qui, come in tutti i Caraibi Francesi, il 27 aprile 1848, il governo provvisorio della breve seconda repubblica decretò l’abolizione della schiavitù, e questo decreto entrò in vigore due mesi dopo circa, due mesi durante i quali lotte e soprusi divennero più cruenti che mai. In Guadalupa si contavano 87.000 schiavi su 130.000 abitanti, e il sistema delle “Habitation” restò difficile da scrollare di dosso: molto spesso gli schiavi, nei primi tempi, per poter guadagnare e non essere arrestati per vagabondaggio, tornavano a lavorare nei campi, ma, gradualmente, le piantagioni vennero da essi abbandonate. I proprietari terrieri ricorreranno allora alla manodopera salariata indiana: più di 42.000 indiani raggiungeranno Guadalupa tra il 1854 e il 1889, per poter continuare la produzione dello zucchero. Oggi, molti discendenti di quegli indiani hanno mescolato la grazia sottile delle loro figure e la sericità dei loro capelli a quella di africani, arawak ed europei, cosa che dipinge di mille magnifici colori questo paese ancora tormentato.
Tanti sono i luoghi che su Grande Terre restano punti focali di quella che, grazie al contributo dell’Unesco, è meglio nota come “Route Des Esclaves”: il primo, “fuori carta”, è la scalinata di Petit-Canal, luogo che era un punto di arrivo degli schiavi africani sull’isola, 154 gradini di pietra calcarea intagliata, che essi percorrevano per essere “battuti all’asta” e divisi, oggi resi immortali dal monumento all’Abolizione Della Schiavitù, e più su, verso Anse Bertrand, una delle tante, enormi, Habitation Sucrières, l’Habitation Mahaudière; in secundis, il famoso “Memoriale ACTE”, di Point-à-Pitre, la Capitale di Guadalupa, fortemente voluto dalla Presidenza Francese, ed inaugurato nel maggio 2015, è il Centro caraibico per la memoria della schiavitù, ed ha un’architettura unica nei Caraibi, innanzitutto perché è costruito sul sito di un’antica Habitation Sucrière, Darboussier, e poi perché, su quei 1700mq. ospita una mostra permanente, uno spazio dedicato alle mostre temporanee, un giardino panoramico, Morne Mémoire, che offre una vista sull’oceano, sulle montagne di Basse-Terre e sulla baia di Pointe-à-Pitre, con una passerella monumentale (12 metri di altezza, 275 metri di lunghezza) che collega Morne Mémoire al resto della struttura: visitato anche all’apertura, è imponente, ed è un magnifico progetto, perché, appunto, serve a ricordare e far ricordare, anche se nulla può cancellare il passato, da queste parti; ancora, il Museo Schoelcher, a Pointe-à-Pitre: questo museo, installato in un magnifico edificio del XIX secolo, racconta la storia degli abolizionisti e conserva preziosi tesori legati ad una lotta che fu lunga e degna di essere narrata. Infine, scendendo verso Moule e Saint-François, ho incrociato l’Habitation Neron, oggi parte di un magnifico progetto di “riabilitazione” industriale, ideologica ed emotiva condotto dal patron della distilleria Papa Rouyo, Monsieur Joris Galli, uomo nuovo nel mondo del Rhum De Guadeloupe, figlio di planteurs, non di origine europea: è un progetto che apprezzo molto e che farà parlare di sé nel futuro.
Alla fine di quella giornata di pioggia torrenziale, siamo scesi al mare, seguendo un cammino che pian piano stringeva e diveniva difficoltoso per l’auto, tra Saint François e Moule, dirimpetto al punto che il dito nero di roccia della Pointe Du Cimetière ci indicava da Marie-Galante: proprio lì, quasi a ridosso del litorale, a Sainte Marguerite, c’è un cimitero di schiavi, ed è forse il luogo della memoria più importante di tutta Guadalupa, oltre ad essere il meglio documentato di tutte le Antille. E’ un cimitero marino, ma tutto il contrario dei poetici cimiteri marini dei villaggi di pescatori della nostra Italia: un cimitero in cui le persone in schiavitù, migliaia di persone, visto che alla fine del XVIII secolo gli schiavi erano arrivati a rappresentare il 90% della popolazione di Grande Terre, venivano sepolte, a volte in ceppi. Non tutti battezzati, e non tutti in bare, come voleva il Code Noir, alcuni interrati con oggetti, probabilmente appartenevano a epoche differenti, ed il sito, fuori dalle rotte commerciali e dalle città, quasi per vergogna, rimase luogo di sepoltura per secoli. L’origine africana dei soggetti è descritta come evidente per le caratteristiche morfologiche dello scheletro e del cranio, così come per le mutilazioni dentarie tipiche di alcune popolazioni dell’Africa Occidentale, cosa che testimonia che erano cresciuti là, e, dopo l’adolescenza, erano stati deportati in Guadalupa per lavorare nelle piantagioni.
Pannelli esplicativi sono presenti sul sito, in tre lingue, Francese, Creolo e Inglese, per permettere, nonostante non sia un luogo di facile frequentazione, una conoscenza approfondita a tutti quelli che vi arrivano, insieme ad un monumento, che dall’alto di una roccia domina il luogo, e rappresenta il volto di una donna, quasi una Madonna africana, con ornamenti e occhi e labbra africane, che guarda con dolcezza il suo bimbo in fasce. Una immagine che vuole essere di perdono, amore e dolcezza, ma che mi lascia turbata e, insieme alle foto sui pannelli, mi fa piangere. Resto seduta sotto la pioggia ad ascoltare, e chiedere perdono come se fosse la cosa più naturale, tra candele spente di ancestrali “messe” passate e schizzi di salsedine. Sono grata di essere arrivata qui in un giorno di pioggia, in cui non c’era nessuno, e consiglio a tutti voi che visitate Grande Terre di terminare qui la vostra Route de l’Esclave, davanti all’oceano, perché avrete tanti pensieri da far correre via tra le onde e il vento.