Resoconto weekend Friulano, la Domenica (17/04/2011)

Resoconto weekend Friulano, la Domenica (17/04/2011)

Fonte Laphroaig.it


In realtà la domenica non la abbiamo passata a Sacile ma a Cavasso Nuovo – comune sempre della Pedemontana Friulana – alla scoperta della Pitina (e non solo).


Dopo la degustazione del giorno precedente, abbiamo fatto circa 40 minuti di strada verso Nord-Est e attraversato comuni come Aviano (con tanto di caccia che decollavano), Vajont (il comune ricostruito più a valle dopo la tragedia della diga) e Maniago (patria dell’arte fabbrile e delle coltellerie) per giungere sino a Cavasso Nuovo.
Questo è probabilmente l’ultimo posto dove un visitatore possa pensare di poter trascorrere una felice e rilassante domenica, noi ci siamo andati attratti dal presidio Slow Food della Pitina, ma il suo responsabile Filippo Bier ha pensato bene di arricchire la nostra visita.



Alcune valigie di cartone presso il museo dell’emigrazione di Cavasso Nuovo

Qui siamo nel “vero Friuli”, visto che lo stesso Riccardo ha ammesso di avere qualche problema ad interpretare il dialetto locale…
La nostra delegazione – più Lombarda che Friulana – è stata accolta dal Sindaco Zanon Emanuele, il quale ci ha dato il benvenuto e ci ha guidati nella visita del locale Museo dell’emigrazione.

Il Friuli, come molte altre regioni Italiane, ha infatti sofferto in passato di pesante emigrazione.
Molte persone erano costrette a cercare lavoro lontano da casa ed a recarsi nelle grandi città o persino all’estero.
Nel Palazzo Polcenigo-Fanna di Cavasso Nuovo è stato realizzato un museo che racconta la storia di molti emigranti attraverso i documenti che sono stati raccolti in zona e nei paesi vicini.



Una vecchia fotografia di inizio 1900, una
sedonera con il cesto di cucchiai di legno

Abbiamo così scoperto l’esistenza delle donne sedonere, donne che per poter dare un apporto alla famiglia durante l’inverno costruivano piccoli utensili di legno per la cucina ed in primavera abbandonavano il loro piccolo paesino di montagna e – a piedi – arrivavano sino a Brescia per vendere i loro manufatti.
Oggi siamo abituati a vedere i nostri supermercati stracolmi di merce e non riusciamo più a comprendere cosa si doveva fare in passato per procurarsi il cibo indispensabile per la famiglia.
Tutto questo assume un significato ancora più importante se si pensa ai problemi di immigrazione dal Nord Africa che stiamo affrontando in questi mesi.

Il museo è molto interessante, davvero ben fatto; è in corso il progetto di aprire una finestra web che gli dia maggiore visibilità e che consenta di raccogliere altro materiale da discendenti di Friuliani emigrati all’estero in passato.
La visita è stata ancora più piacevole grazie alla presenza del Sindaco, a cui va tutto il nostro ringraziamento per averci accompagnati in modo appassionato per buona parte della giornata.
Un ottimo esempio di amministrazione locale, vi ho ritrovato lo stesso senso di comunità che vedo in Scozia e che credevo fosse andato perso in Italia.



L’andamento della emigrazione verso l’estero dalla sola provincia di Udine (dal 1876 al 1940)



Alcune cartoline rispedite a casa dai Cavassini emigrati



I malti del birrificio di Meni

Siamo quindi passati a visitare il birrificio artigianale La birra di Meni, una nuova realtà nata dalla passione di Meni e con già in bacheca alcuni interessanti riconoscimenti.
L’ingresso nella parte produttiva del birrificio ci ha stupiti per l’estrema pulizia e ordine (cosa assai rara nei micro-birrifici), la stessa pulizia e qualità che abbiamo poi ritrovato in tutte le sue birre che abbiamo degustatato.

Molto interessanti, abbiamo assaggiato una birra doppio malto alla zucca (la Candeot, birrificata in occasione della locale Festa della Zucca), la Caldan una freschissima alta fermentazione aromatizzata ai fiori di sambuco e la Marals una pilsener aromatizzata con le locali ciliegie bianche.
(20/04/2011 Davide di Angelshare.it giustamente evidenzia che doppio malto non ha alcun significato – se non per le accise, meglio citare la tipologia di birra…la birra alla zucca è una alta fermentazione)



Assaggiamo la pitina di pecora e di cervo

E’ stato quindi il momento di Filippo Bier e della sua Pitina della Valtramontina (www.pitina.com).
Nel suo piccolo laboratorio Filippo si occupa in prima persona di tutte le fasi di produzione della pitina, dalla macellazione delle bestie sino alla vendita.

La pitina è un salume prodotto utilizzando le materie prime disponibili in queste zone montane.
Originariamente non c’era presenza di maiale, per cui era composta esclusivamente con carni di pecora, di capra e di selvaggina (camoscio, capriolo).
La forma arrotondata è dovuta al fatto che non c’era possibilità di reperire budello per insaccare la carne e quindi conservarla, per cui si usava creare delle polpette ed arrotolarle nella farina gialla.
Inoltre questa preparazione non richiedeva particolari attrezzature e quindi era possibile prepararle ovunque anche in malghe lontane da centri abitati.
Questo succedeva normalmente senza un preciso programma, per cui una capra che si spezzava una zampa, un malessere da parto o l’abbattimento di un camoscio, erano l’occasionale condizione per l’immediata preparazione delle Pitine.

Il sale, il pepe e la farina da polenta in malga non mancavano mai, quindi una volta macellato l’animale e disossato, la carne veniva tagliata a pezzettini il più piccoli possibile, quindi insaporita con sale, pepe ed erbe aromatiche raccolte sul posto (Arsinc’), si formavano delle polpette con le mani, quindi si passavano nella farina da polenta e si appoggiavano sotto la cappa del camino del focolare ad affumicare e lì rimanevano per alcuni giorni.



Filippo Bier riceve il nostro Laphroaig Slow Food

La pitina ha attraversato anni difficili e progressivamente la componente di pecora o selvaggina è andata via via diminuendo.
Questo sino al 2003 quando Slow Food è intervenuta per difendere la tradizione che stava scomparendo, ha creato il Presidio della Pitina ed ha forzato un disciplinare che obbliga all’uso di almeno due terzi di carne frescha di ovino o caprino o selvaggina, e con aggiunta di maiale per il restante terzo.
Come risultato oggi sono rimasti attivi due soli produttori, ma quella che assaggiamo oggi è la vera pitina.
Maggiori informazioni su www.presidislowfood.it.

Filippo ritiene indispensabile macellare direttamente perché è in questa fase che si fa la differenza.
E’ solo lavorando le carni migliori, rimuovendo tutto il grasso ed il pelo (che sono i componenti che danno il “gusto cattivo di pecora”), che si ottiene un salume dal gusto piacevole ed equilibrato.

La pitina oggi si mangia cruda a fettine, dopo almeno 30 giorni di stagionatura, ma è ottima anche cucinata. Può essere scottata nell’aceto e servita con la polenta, rosolata nel burro e cipolla e aggiunta nel minestrone di patate, o ancora fatta al cao, cioè cotta nel latte di vacca appena munto.

(Fonte www.pitina.com)

Ci siamo quindi seduti a tavola del ristorante Ai cacciatori, osteria Slow Food, dove non abbiamo dovuto proferire parola se non un “basta non ce la facciamo più” quando eravamo solo all’inizio dei piatti di carne…
Daniele ci ha proposto il meglio della cucina locale dove ovviamente la cacciagione e le erbe spontanee hanno fatto da padrone.
L’ambiente del ristorante è molto accogliente, il servizio mette i commensali immediatamente a proprio agio.
Per quanto riguarda i piatti, tutto eccellente, a voi giudicare dalle foto che riportiamo qui di seguito!

E’ stata una giornata whisky-free (complice la preoccupazione del lungo viaggio di ritorno), ma rimarrà nei nostri cuori come l’esperienza più bella del weekend.



Il grisol con il nostro gruppo a tavola presso il ristorante “Ai Cacciatori” di Cavasso Nuovo



Sformatino con fonduta



Salume d’oca



Pitina al burro con polenta e ricotta



Risotto con il grisol e punte di asparagi



Tortella ricotta



Gnocchi con ragù di faraona



Tagliata di cervo
 

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