Fonte Laphroaig.it
“Vecchio” nel senso di un whisky che è stato sottoposto ad una lunga maturazione.
Parlo quindi di un 30 anni e oltre, di una di quelle rarità che si ha modo di assaggiare davvero poche volte nel corso della vita.
Non intendo quindi un whisky giovane ma di vecchio stile, come quelli che abbiamo assaggiato durante la nostra ultima degustazione sugli Anni ’80.
La campagna The Age Matters di Chivas era basata su una valutazione di mercato per la quale il consumatore percepisce tanta maggiore qualità quanto più “vecchio” è il distillato.
Tra un whisky di 12 anni ed uno di 18 anni si dà per scontato che il 18 anni debba essere migliore rispetto al 12, ancor prima di averlo assaggiato.
Cosa per nulla scontata e spesso smentita alla prima “annusata”.
Il Laphroaig 40 anni, un degno “vecchio”
Spingendosi oltre su questa linea, si giunge a varcare la soglia dei 25 / 30 anni di maturazione – quella degli imbottigliamenti standard di fascia alta, i premium – e si entra nell’Olimpo degli ultra-trentenni.
In questa fascia pochissime distillerie possono permettersi una presenza continua; di solito vengono rilasciati imbottigliamenti rari ed una-tantum e spesso rivolti al mercato del collezionismo.
In effetti il costo di queste bottiglie le rende “poco compatibili” con una bevuta tra amici.
Ma, come per un Barolo Vintage 1970 (ricordiamo che il vino continua la sua evoluzione in bottiglia, diversamente dal whisky), l’apertura di una di queste bottiglie deve creare delle aspettative diverse rispetto a quelle di una semplice ed onesta bevanda conviviale.
Difficilmente ci troveremo di fronte ad un dram muscoloso, la lunga permanenza in botte avrà trasformato il whisky in un mix di acqua, alcool e tannini.
Tutti gli aromi primari (quelli derivanti dall’orzo) se ne saranno andati, la torba per prima.
Degli aromi secondari acquisiti durante la fermentazione (come il fruttato) sarà rimasta solo una piacevole e tenue traccia che darà un poco di struttura al nostro whisky.
Infine rimarranno gli aromi terziari derivanti dal legno della botte (la vaniglia, la spezia, il tannino), che con il passare degli anni si saranno trasformati in un mix di truciolo di legno, di spezie, di petrolio e di liquirizia.
Questa almeno è la teoria, che detta così poco incentiva l’acquisto di queste costose preziosità.
La pratica è decisamente diversa.
Chi assaggia un whisky “vecchio” lo fa per scoprire un mondo dimenticato.
Lo fa per tornare indietro nel tempo di 30-40 anni.
Lo fa per capire come si faceva il whisky molti anni prima.
Lo fa per comprendere quanto la lunga maturazione abbia influito sulla struttura dello spirito.
Lo fa per scoprire come era diverso il legno che si usava nel passato.
In fondo in fondo lo fa un po’ per sfidare il tempo e un po’ per ricercare il piacere nella vita.
Il rischio è che chi seleziona e vende questi “vecchietti” sia consapevole delle nostre debolezze e provi a rifilarci dei prodotti morti.
Intendiamoci, trovare una botte che dopo oltre 30 anni di maturazione riesca a restituirci un whisky bevibile (e non sto dicendo eccezionale) è una vera e propria rarità.
Fa parte di quella magia difficilmente spiegabile scientificamente che rende ogni botte differente dalle altre, anche se arrivano dalla stessa quercia, se sono state riempite con lo stesso spirito, distillato nello stesso giorno dallo stesso alambicco e anche se sono maturate nella stessa posizione dello stesso magazzino.
Sta alla serietà di chi seleziona e di chi vende (a caro prezzo) queste rarità il capire quanto in là si possa spingere la maturazione di ogni singola botte.
Ci vuole più coraggio a dire che è arrivato il momento giusto di imbottigliare piuttosto che continuare ad attendere…
Solo una fortunatissima combinazione potrà restituirci un whisky pulito e piacevole.
E noi saremo sempre qui pronti ad apprezzare ogni singola goccia di questi nettari.
Sì, giusto qualche goccia, perché di più non potremo permetterci…