Malteria Monferrato

Malteria Monferrato

Il valore dell’artigianato italiano cresce ininterrottamente. Così come aumenta la percezione della qualità delle nostre lavorazioni. Il mondo della birra artigianale italiana, e la nascente distillazione di whisky, ha saputo intercettare e stimolare questo nuovo trend. Oggi i birrifici sono oltre 1.000 e le distillerie italiane che hanno iniziato a lavorare sacchi di cereali hanno probabilmente superato le 20 unità.

L’Italia ha un importate tradizione per la coltivazione dei cereali, con una tutela della biodiversità e delle varietà antiche che non ha pari in Europa. Diventa a questo punto facile pensare ad una birra 100% italiana, ma per completare l’intera filiera è sempre stata assente una lavorazione fondamentale: la maltazione. Risultato? La gran parte delle materie prime che si utilizza nei birrifici artigianali è sempre stata di origine inglese o tedesca.

Settimana scorsa ho visitato una delle nuove malterie artigianali che si sono attivate su mercati locali, la prima del Nord Italia. Nel cuore del Monferrato, territorio patrimonio dell’UNESCO, è nata nel 2016 la Malteria Monferrato. Una nuova attività artigianale che, insieme ad un’altra manciata di nuovi colleghi italiani, è in grado di riscrivere il futuro della birra italiana. Un settore che sta iniziando ad interrogarsi su quale potrà essere il proprio ruolo nel nascente movimento dei micro-distillatori italiani.

 

Due silos accolgono il visitatore della Malteria Monferrato

 

La storia

La Malteria Monferrato nasce grazie all’interesse di Davide Monastra verso il movimento della birra artiginale. Nel maggio 2015, mentre stava girando il mondo per lavoro, Davide viene in contatto con alcuni amici della birra artigianale e, trovandosi con loro in Canada, ha colto l’opportunità di visitare alcune malterie allo scopo di approfondire il settore.

Da lì l’idea di non percorrere il classico percorso che lo avrebbe portato a produrre birra, ma di provare una strada alternativa. Scelse così di frequentare un corso di Maltatore all’Accademia dei Malsters. Trovatosi subito a proprio agio, tornato in Italia, frequentò il corso di Mastro Birraio presso il DIEFFE di Padova per meglio comprendere le esigenze dei birrari, i destinatari del suo prodotto.

 

Davide Monastra, a sinistra, gestisce con la sua famiglia la Malteria Monferrato

 

Avendo ottenuto il supporto della sua famiglia e della Coldiretti di Asti, decise di provarci. Come pionieri, hanno dato inizio nel 2016 ad una novità assoluta nel Nord Italia. Poche le competenze presenti in Italia, la scelta dei macchinari – di difficile reperibilità – è stata complessa, così come acquisire l’esperienza necessaria per maltare l’orzo.

La Malteria è stata aperta a Villafranca d’Asti, sul confine tra il Basso e l’Alto Monferrato. A luglio del 2016 il Consorzio di Asti comunicava la disponibilità di 60 tonnellate di orzo Scarlet appena raccolto. Dopo la necessaria ristrutturazione del capannone, il 13 febbraio 2017 l’attività poteva avere inizio.

Oltre ai contributi della Coldiretti e del Consorzio, fondamentale è stato il supporto di una manciata di birrifici artigianali piemontesi, un numero destinato a crescere velocemente. Il punto di svolta nel luglio 2017 quando il Birrificio Torino ha realizzato la prima cotta con materia prima 100% locale, coltivata e maltata in Piemonte. Un territorio famoso per il suo vino, scopriva improvvisamente di possedere una seconda anima.

Oggi i birrifici “clienti fissi” sono circa una ventina, oltre ad una serie di lavorazioni occasionali o sperimentali – comprese quelle commissionate dai loro primi clienti distillatori di whisky. La produzione si è attestata sulle 100 tonnellate annue, che – per un impianto che ha una capacità annua di 120 tonnellate – significa lavorare a ciclo continuo da settembre a giugno, esclusa la necessaria pausa estiva.

100 tonnellate che nulla sono rispetto alle 90.000 tonnellate di malto che ogni anno provengono dall’estero, ma il desiderio di creare una filiera artigianale completamente italiana è oggi realtà, così come sono cresciute le competenze che stanno portando a micro sperimentazioni o alla valorizzazioni di varietà locali che – per volumi – non avrebbero mai potuto attirare l’interesse delle grandi malterie industriali.

 

 

I cereali piemontesi

Non è solo maltazione. L’attività parte dai campi e oggi – grazie alla fiducia e all’interesse che si sono mossi attorno alla Malteria Monferrato – è diventato sicuramente più facile effettuare sperimentazioni sulla coltivazione del cereale. Il Consorzio Agrario delle province del Nord Ovest ha attivato un legame diretto con i coltivatori: 13 sono le aziende agricole inizialmente coinvolte, per un totale di 50 ettari coltivati. L’interesse si è inizialmente focalizzato verso le varietà di orzo più idonee alla produzione dei 4 tipi di malto principale (Pilsner, Pale, Monaco e Vienna), per poi spostarsi verso la valorizzazione dell’orzo tipico del Monferrato.

Il primo importante risultato, nell’immediato, è stato un maggiore valore riconosciuto al lavoro dei coltivatori, che hanno registrato un incremento del 20% del prezzo di vendita dell’orzo rispetto alle normali condizioni del mercato.

Poi la segale, che ha un importante passato in Piemonte – così come in molte altre aree dell’arco alpino. Una coltivazione che sino agli anni ’50 era in queste aree quella dominante, e che oggi è relegata a piccole comunità che hanno mantenuto viva la tradizione e che hanno seguito il crescente interesse verso la filiera corta e il mercato a km zero. L’Università di Torino ha fatto nascere un progetto volto a valorizzare la coltivazione della segale, la biodiversità agricola sul territorio piemontese e la sperimentazione di varietà locale praticamente scomparse.

Un cereale, la segale, originario dell’Asia Minore, e che ha trovato il suo habitat ideale nelle aree europee con clima rigido e terreni “magri”. Grazie al suo rapido ciclo di crescita è diventata la base alimentare delle zone montane. Con lo spopolamento delle montagne nella seconda metà del XX secolo e con il miglioramento delle condizioni di vita e delle tecnologie agrarie la segale ha perso la sua centralità anche per quei territori dove ha costituito per secoli la base della dieta e dell’economia. Secondo i dati ISTAT nel 2022 gli ettari di territorio italiano coltivati a segale sono oggi solo 3.400, rispetto alle decine di migliaia di qualche decennio fa.

La rinascita della segale passa dalle valli del Cuneese. Da qualche anno in Valle Grana si è ripresa la coltivazione di grani e cereali tradizionali come il Barbariá. Letteralmente “imbarbarito, imbastardito”, indica un’antica tecnica che prevedeva la semina autunnale di una miscela composta da semi di frumento per circa il 60% e di segale per il restante 40%. Oltre che a produrre una farina più digeribile rispetto a quella di sola segale, contribuisce alla necessaria rotazione delle coltivazioni che migliorano la salute del suolo e ripristinano i suoi nutrienti.

Si è così ripresa la coltivazione di alcune antiche varietà di cereali, come il grano Bertone dal quale si ottiene una farina bianchissima e povera di glutine; o di diverse varietà tradizionali di mais (ottofile e pignulet) impiegati per la polenta e il grano saraceno, un falso cereale, dal gusto leggermente acre, ricco di proprietà antiossidanti e con un basso indice glicemico, impiegato nelle polente e in molti prodotti da forno.

Una filiera 100% piemontese e anche una valorizzazione sana del territorio, diversa da quella che porta a vendere vigne a fondi internazionali di investimento, al costo di diversi milioni di Euro per ettaro.

 

 

 

Il maltaggio

La Malteria Monferrato ha optato per l’installazione di un “piccolo” maltatore a tamburo orizzontale, con una capacità di lavorazione di circa 5 tonnellate.

L’attività inizia fuori dai muri della malteria. Tutto l’orzo viene analizzato in laboratorio per garantire tutti i parametri necessari per una ottima produzione di birra: bassi livelli di aflatossine, buon potere germinativo, corretto peso specifico, quantità di proteine e umidità. L’orzo viene poi pulito e selezionato con un calibro dei chicchi attorno ai 2,5 mm, l’ideale per una omogenea ed efficace germinazione. Il 10% dell’orzo verrà scartato e dirottato verso altri usi, il 90% arriverà in malteria per essere lavorato.

Il procedimento di maltaggio si svolge in quattro fasi e dura, complessivamente, circa 10 giorni.

La prima fase è quella della macerazione. L’orzo viene immerso nel maceratore per tre giorni, dove viene tenuto ossigenato grazie al cambio continuo dell’acqua. L’orzo viene idratato con tempistiche ben definite, l’umidità nel chicco cresce velocemente, l’embrione all’interno inizia una fase di respirazione. Alla fine i chicchi avranno una umidità cresciuta sino al 40-45% e potranno essere trasferiti nel tamburo dove verranno effettuate le tre lavorazioni successive.

La seconda fase è la germinazione. In ambiente umido e caldo, l’embrione si sviluppa creando gli enzimi che servono per scomporre le lunghe catene di amidi, immagazzinate nel chicco e nelle pareti dell’endosperma, in zuccheri semplici. Durante questa fase l’embrione diventa germoglio e inizia a consumare parte di questi zuccheri. Diventa quindi importante monitorare continuamente il cereale, sino al raggiungimento dell’apice di questa trasformazione, con la gran parte dell’amido degradato in catene più corte. A questo punto si deve interrompere lo sviluppo del germoglio tramite essiccazione.

Tradizionalmente si tiene l’acqua di macerazione ad una temperatura attorno ai 18-20°C e si interrompe la crescita del germoglio nel tamburo quando la “piumetta” ha raggiunto una lunghezza pari ai 2/3 di quella della cariosside. Si è così ottenuto il malto verde.

La crescita del germoglio deve avvenire in modo uniforme, motivo per cui il tamburo ruota in continuazione, ad una velocità che varia a seconda della fase del maltaggio. Con questa rotazione viene sostanzialmente simulata l’azione che la pala effettua nei malting floor: i chicchi vengono continuamente mischiati.

La terza fase è la preessicazione, che consente di dimezzare l’umidità grazie ad un’aria con una temperatura attorno ai 30-40°C. È una disidratazione che lavora in profondità.

L’ultima fase è quella di essicazione, che utilizza calore da un minimo di 60° ad un massimo di 120°C. Lo scopo è quello di abbassare l’umidità attorno al 3-4%: in queste condizioni qualsiasi processo enzimatico viene fermato e il malto diventa idoneo allo stoccaggio anche per lunghi periodi. Non solo, l’intensità di questo calore determinerà la tipologia di malto prodotta e il suo aroma. Calore che, se intenso, porta ad una vera e propria torrefazione del malto.

A titolo di esempio:

  • 60-70°C: malto Pilsen, malto Pale Ale
  • 85°C: malto Vienna
  • 103°C: malto Monaco
  • 140°C: malto Caramello Red
  • 150°C: malto Caramello Amber
  • 215°C: malto Chocolate
  • 225°C: malto Black

Con il crescere della temperatura, aumenterà il carattere tostato del malto e diminuirà – sino a scomparire – la carica enzimatica del chicco e quindi la sua possibilità di fornire zuccheri e alcol durante la fermentazione.

Durante la fase di essicazione è possibile applicare anche fumo (il pensiero va chiaramente alla torba). Non sono ancora stati fatti esperimenti di produzione di malti affumicati presso la Malteria Monferrato, ma l’impianto è facilmente adattabile. Le operazioni di torrefazione intensa vengono effettuate esternamente.

 

Il tino di macerazione e il maltatore a tamburo orizzontale della Malteria Monferrato

 

Malting in progress all’interno del maltatore a tamburo orizzontale

 

Il laboratorio

Tutti i maltatori che ho conosciuto sono stati più orgogliosi di raccontarmi cosa viene fatto nel loro laboratorio, anziché entrare in dettaglio della tecnica produttiva. È qui che nasce il successo del loro lavoro, attraverso una attento controllo dello sviluppo dell’embrione e del corretto livello di essicazione. Qui nasce la qualità del loro malto. Una interruzione della germinazione nel momento sbagliato porta ad una resa insufficiente del proprio malto. Una essicazione troppo veloce provoca una denaturazione degli enzimi, che devono invece essere preservati in quanto necessari durante l’ammostamento.

Anche Davide ci racconta delle difficoltà che ha dovuto superare per arrivare alla qualità attuale della sua produzione. Ogni strumento che ha introdotto è servito per acquisire la consapevolezza necessaria e per apportare continue migliorie al proprio processo produttivo. E, pur avendo certezza dei “parametri” del suo malto, non manca mai di effettuare una prova di macinatura con un piccolo mulino, per verificare la corretta consistenza. Oltre ad una fermentazione in un microscopico impianto, per valutare le qualità organolettiche.

 

 

Il malto

Il numero di birrifici interessati alla filiera piemontese è in forte ascesa. Avendo aderito al consorzio di Birra Origine Piemonte – che raggruppa quasi una ventina di realtà, accomunate dal desiderio di una filiera “100%” Piemonte – la gran parte della lavorazione effettuata dalla Malteria Monferrato è in conto terzi, effettuata su cereali forniti (e magari coltivati) direttamente dai birrai. Cereali per cui si chiede il quaderno di campagna, assenza di OGM e glisofati, e che vengono comunque sottoposti a tutti i test necessari di laboratorio. Una parte della produzione è invece a proprio brand e disponibile all’acquisto nei tradizionali sacchi da 25 kg.

La Malteria effettua anche il servizio di stoccaggio, in celle frigorifere durante i caldi mesi estivi. Il batch minimo di lavorazione è appunto di 5 tonnellate (45 quintali già puliti e calibrati). La Malteria ha attivato anche la certificazione RINA AGRO.Q che le consente di produrre malto bio.

La pandemia è stato un periodo molto difficile per la birra artigianale italiana e, conseguentemente, anche per la malteria, che – comunque – non si è mai fermata. Oggi la nuova sfida si chiama “costi energetici”, più che triplicati in pochi mesi, che ha reso necessaria una piccola revisione del listino, ma che non ha intaccato il loro desiderio di continuare ad utilizzare energia green. L’impianto, come abbiamo anticipato, è praticamente utilizzato al massimo della sua capacità. La sede della Malteria è molto grande, e può tranquillamente ospitare altri 2 impianti. Ma, con soli 6 anni di attività alle spalle – di cui due di pandemia, è bene non fare passi troppo lunghi.

Tra i sacchi stoccati spiccano alcuni indirizzati a distillerie piemontesi. La stima mia, e quella di Davide Terziotti, è che ci siano già 5/6 produttori di whisky attivi in Piemonte, e che nel breve questo numero possa raddoppiare. Due distillatori li stiamo seguendo noi – un terzo si aggiungerà nel breve, è davvero molto stimolante. Grazie al suo importante legame con la coltivazione di cereali, il Piemonte giocherà facilmente un ruolo importante nella nuova mappa di produzione di whisky italiano. Tutti temi che affronteremo in dettaglio durante la prossima edizione di DISTILLO.

 

 

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