Il Nerd Corner di Anna
La forma del rum – Shape of Rum
Sempre più produttori oggi, nel mondo del rum in generale, e nel mio piccolo grande mondo del rhum agricole in particolare, sperimentano forme di maturazione sempre più innovative e lontane dalle origini, oppure, a volte recuperano materiali che in origine erano utilizzati: facendo un passo indietro, è interessante ricordare come la prima funzione del contenitore poi destinato alla maturazione (botte o altro) fosse il trasporto, tout court. All’epoca dei Greci e dei Romani, infatti, il trasporto delle derrate liquide veniva effettuato tramite anfore di terracotta, contenitori pesanti, fragili e poco maneggevoli, tanto che, probabilmente per merito dei Romani stessi, intorno al V secolo a.C., fu inventata la botte, più solida e facile da spostare, ed essa si diffuse in tutto l’Impero. In seguito, furono i Galli a perfezionare questo strumento di trasporto così geniale, che nei lunghi secoli che oggi chiamiamo Medio Evo, nei quali si formò molta parte della rete di rotte commerciali europee e asiatiche, terrestri e acquatiche, divenne uno strumento strategico per il trasporto dei liquidi, alcolici e non, sino a che, all’epoca della conquista del Nuovo Mondo, la botte fece capolino anche dall’altro lato dell’Atlantico: qui, come sappiamo, divenne il contenitore perfetto per trasportare rum da un lato all’altro dell’Oceano, conferendo, durante le lunghe traversate, al famigerato Kill Devil, che troppo buono non era, un colore dorato ed un gusto più rotondo e piacevole che il Vecchio Continente cominciò da subito ad apprezzare, e a proporre come alternativa alle acqueviti invecchiate di produzione europea.
Le botti, che inizialmente erano di legni diversi e d’occasione, secondo il paese e la disponibilità, come mi era capitato di spiegare in un precedente articolo, vennero costruite sempre di più, au fil des siècles, con il legno di quercia, che aveva mille pregi (plasmabilità, resistenza, aromi e tannini idrosolubili), ed un solo difetto, la crescita lenta degli alberi, cosa che si rifletteva e si riflette, ovviamente, sulla disponibilità e sul prezzo della botte nuova, anche oggi importante, soprattutto in funzione della misura e della lavorazione.
Venendo alla funzione “lavorazione”, ovvero, stagionatura, chauffe (tostatura), char (carbonizzazione), profile, caratterizzazione o finish, possiamo dire che oggi le botti di quercia nuova subiscono la combinazione di almeno tre di questi fattori, che non erano sempre parte della vita di una botte nel 1800: il Rum (ma non è l’unico, anche lo Scotch) è un alcool abbastanza fragile, che mal reagisce al contatto diretto con l’abbondanza di polifenoli (lignani, vedi articolo) sprigionati dal legno di quercia nuovo (e il tipo di quercia incide parecchio), e facilmente può sviluppare note sgradevoli, perciò, prima che la scienza della profilazione della barrique nuova divenisse realtà, a quei tempi si era arrivati a comprendere che per poter conservare e far maturare più a lungo di 1 o 2 anni un rum, era meglio utilizzare botti che avevano già contenuto un altro alcool, oltre ad essere meno costose delle botti nuove: botti ex-Bourbon da 190 o 200 litri e botti ex Cognac da 300 litri sono state la normalità nella storia del rum per almeno due secoli, mentre è storia recente quella che prevede un “secondo passaggio” o finish in botti che hanno precedentemente contenuto un vino o un vino fortificato, per dare un’armonia finale diversa allo spirito.
Utilizzare botti “ex” permette di avere più tempo a disposizione per la maturazione del rum, una fase estrattiva diretta meno violenta e veloce, e un buon apporto di carattere da parte dello spirito che aveva precedentemente occupato la botte: dovete sapere che una botte da 200 – 300 litri mediamente conserva, imprigionati nelle sue doghe, da 5 a 9 litri del liquido precedentemente contenuto, chiamato in gergo “parte del Diavolo”, cosa che aveva e ha il potere di dare un carattere e uniformare il gusto del rum che veniva prodotto dai diversi produttori, che avevano così la possibilità di legare l’impronta aromatica del loro bianco a un preciso lavoro della botte, che nei successivi utilizzi diveniva parte della loro identità in maturazione. Come già visto, la dimensione della botte e lo spessore delle doghe sono direttamente connesse alla fase sottrattiva ed all’evaporazione, o “parte degli Angeli”, che in clima tropicale è sempre stata importante: AOC Martinique e IGP Guadeloupe considerano l’8% come soglia minima per le dichiarazioni annuali.
La forma della botte ha anch’essa un ruolo, ed è stata sviluppata da sempre in modo da offrire un gradiente estrattivo dolce ma differente in ognuna delle zone occupate dallo spirito: molto spesso la forma era legata anche all’organizzazione degli spazi, per cui, se è vero che una botte più “panciuta” (fut ventru) offriva e offre una esperienza aromatica più rotonda e armoniosa, occorreva spazio per ospitare questo tipo di botte, e spazio tra una botte e l’altra, per cui le botti meno arrotondate erano spesso più facili da allineare e accatastare. Una botte “panciuta” e di grande dimensione, come accade più spesso in tempi moderni, richiede spazi e capacità di accesso particolari, ma sicuramente dona la possibilità di poter amministrare in maniera molto efficace la maturazione al filo del tempo e delle perdite annuali.
New entry nella moderna gestione di uno chai d’invecchiamento, per il momento nel mondo del vino, è l’introduzione della botte di forma ovoidale, proposta ad esempio dalla tonnellerie Taransaud: è una botte su misura e su richiesta, a forma di uovo appunto, capace di contenere fino a 20 ettolitri di liquido. Sembra che questa forma favorisca la convezione naturale del liquido e consenta il rimescolamento naturale delle fecce fini provocando un movimento permanente lungo le pareti, garantendo al contempo precisione, espressività e complessità, ed è perciò apprezzata soprattutto da coloro che lavorano in modalità biodinamica. Vedremo in futuro se questo nuovo strumento di maturazione sbarcherà anche nel mondo del rum e degli spiriti in generale.
Per ora vi segnalo un gradito ritorno alle origini: c’è infatti chi ha pensato di far maturare il proprio rhum agricole blanc non in acciaio ma in terracotta, esattamente come avviene già nel mondo del vino, riportandoci al primo contenitore al mondo ideato per il trasporto e la maturazione, l’anfora: il materiale, che può essere o meno vetrificato, ha il potere di consentire una graduale e costante microossigenazione, una modulazione dei tempi di stabulazione, ed un bouquet aromatico che unisce le note verdi e fresche, che risultano molto molto concentrate, alle note “terziarie”. Il produttore che ha tentato questo nuovo percorso è Mana’o, di Tahiti, in Polinesia Francese, che ha da poco lanciato un rum bianco “biologico”, a 54,2%, prodotto a partire da antiche varietà di To Ute, e maturato per 18 mesi in anfore di argilla e gres da 320 litri realizzate da TAVA, azienda familiare italiana rinomata per le sue anfore progettate appositamente per l’invecchiamento di vini e spiriti: l’edizione è limitata a 1500 bottiglie, ma l’esperienza dell’assaggio vale davvero la pena, perché la lunga stabulazione e microssigenazione naturale offrono un respiro e una dimensione davvero diversa allo spirito finale, anche perché esso è gestito con molta più delicatezza di un bianco agricole classico, oggetto, in molti casi, di procedure di brassaggio e ossigenazione meccanica che non sono sempre delicate.
Vedremo cosa ci riserva il futuro, ma l’idea mi piace molto, e sono sicura che presto altri produttori la sposeranno, alla ricerca dell’eccellenza e della diversificazione, ma anche del ritorno al naturale ed alle origini.