Fermentation matters

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Il Nerd Corner di Anna

Fermentation matters (almost all times)

Capitolo spesso lasciato, ed a torto, ai titoli di coda e poco esplorato nel mondo del rum, è la fermentazione del succo, dello sciroppo o della melassa (o di tutti questi, perché no).

In realtà la fermentazione è il medium attraverso il quale noi, nel bicchiere, riusciamo, soprattutto in presenza di distillati non maturati in legno, a percepire tutte quelle gradevoli note floreali, fruttate e speziate che ci fanno amare ciò che beviamo e ce lo fanno, soprattutto, riconoscere.

La distillazione, successiva, è solo un frame, un ritratto che può essere più o meno rispettoso di una buona materia prima e di una fermentazione, che, di quella materia prima, sublima maturità, terroir, condizioni di raccolta. È tutto racchiuso in quel piccolo passaggio fondamentale tra frutto e mosto, tra canna da zucchero e vesou, tra melassa e wash.

 

Cuve di fermentazione Bologne, lieviti tecnici. Foto Anna Ostrovskyj.

 

Ogni fermentazione da zuccheri semplici parte con lieviti indigeni, quelli che sono già sulla buccia della frutta, sugli acini dell’uva, e, più specificamente nel caso del rhum agricole, sulla scorza cerosa delle canne da zucchero (portati in minor misura anche dall’aria), e, dal momento del taglio, nella fibra interna, carica di zucchero: per questo è preferibile che il taglio degli steli sia effettuato a mano, per avere un maggiore controllo sul processo, che, alle temperature di queste isole, ha un andamento piuttosto repentino.

Nel caso specchio di cui vi parlo, le canne da zucchero tagliate a mano nella loro migliore condizione di maturazione (il contenuto in zucchero si misura in gradi brix: il minimo sindacale è 14 nei disciplinari, per me l’ideale è intorno ai 20) sono portate velocemente in distilleria ed accompagnate all’estrazione del loro succo attraverso taglia-canne e mulini, il primo a secco ed i successivi con l’aiuto dell’acqua: il succo è filtrato ed inviato alla cuve di fermentazione dove il primo nemico è ancora una volta la temperatura, che impone di agire molto velocemente, aggiungendo subito una soluzione di lieviti in acqua (qui, nella stragrande maggioranza dei casi, lieviti da panificazione). Sarebbe inoltre importante che le canne da zucchero venissero abbastanza pulite e defogliate, come lo sarebbe curare bene la pulizia delle cuve e dei mulini, cosa che è rarissimo avvenga, purtroppo, da queste parti.

In queste condizioni di estremo calore, una molecola di lievito, che normalmente è vitale tra i 4 ed i 32°C (dove a 4°C lavorerà molto lenta ed a 32°C molto rapida), ha ovviamente pochissimo spazio per fare il suo lavoro e trasformare gli zuccheri in etanolo, quindi quasi nessuna fermentazione ai Caraibi, a meno che non sia a temperatura controllata (come è nel caso di Rhum Rhum) o si utilizzino volutamente particolari tecniche di acidificazione aggiuntiva (dunder e muck pit di Hampden, per citarne una, davvero un altro mondo), si chiude oltre le 48 ore, ed una acidificazione del succo, per evitare proliferazioni batteriche indesiderate, va comunque effettuata, in genere con acido solforico: 48 ore è un lasso di tempo sempre troppo breve per permettere all’enormità di aromi che la canna da zucchero ha da regalare, di esprimersi al meglio, ma è già un buon punto di partenza.

 

Cuves di fermentazione Bielle, lieviti Fermipan. Foto Anna Ostrovskyj.

 

In genere, perché i lieviti possano continuare il loro lavoro in buona forma e non si generino troppi “off-flavours”, aggiungiamo nutrimento, nello specifico sali di potassio o ammonio, oltre alla necessaria acidificazione, che porti il succo da un ph iniziale che si aggira intorno ai 5,5 – 5 punti, giù sino ai 3,5: tipicamente i batteri sono incapaci di resistere in una condizione anaerobia, ma ce ne sono alcuni particolarmente pervicaci, annidati ovunque nelle distillerie, e l’acidificazione dà una grossa mano al processo. Nei protocolli “soi-disant” biologici (che, come sapete, non ritengo sempre in linea con un processo produttivo che sia buono tout court) l’acido solforico non è ammesso, e si utilizza per lo più acido citrico.

La prima parte della fermentazione è molto tumultuosa, e si forma schiuma in superficie. Occorre sorvegliare bene, misurare la densità in ogni fase per capire se sta tutto andando nel verso giusto. E, soprattutto, usare il naso. Oggi esistono prodotti che ci vengono in aiuto, a partire dagli “anti-mousse” che evitano alle cuve, di dimensioni che variano tra gli 8hl e i 20hl, di debordare, sino a lieviti “tecnici”, molto più resistenti e selezionati per non soccombere ad ambienti particolari, che vengono prodotti specificamente per ogni distillato. Il tempo di fermentazione è sempre legato alla ricetta di distilleria ed al profilo che dovrà avere il fermentato finale per dare un rhum da vendere bianco appena svolto un minimo tempo in acciaio, oppure da far maturare più a lungo sempre in acciaio o in legno.

In generale, si ricerca nel fermentato un valore in etanolo tra il 6% e l’8%, con il maggior ventaglio di aromi possibile: la distillazione, con una certa difficoltà se effettuata in colonne créole, cercherà di concentrare il cuore con riguardo alla qualità degli esteri presenti e con l’obiettivo del prodotto finale. Una distillazione discontinua è sempre la migliore soluzione per una fotografia più realistica possibile del terroir e delle fasi precedenti: anche in questo caso il fattore umano è determinante.

Difficile credere che un domani una macchina possa mai sostituire il patrimonio invisibile del nostro olfatto e del nostro palato. E, soprattutto, difficile credere che possa provare il piacere che ricaviamo dalla degustazione di un distillato di buona fattura, in cui tutto il processo produttivo si è svolto nel migliore dei modi possibili e che esprima al meglio la sua essenza ed il suo terroir.

 

Cuve di ricezione Père Labat. Foto Anna Ostrovskyj.

 

Le nostre Master

Di canna da zucchero e di terroir si parla, ma soprattutto si assaggia, durante i Master of Rum di Whisky Club Italia.

 


 

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