Chill-Filtering, è sempre un male?

Chill-Filtering, è sempre un male?

Degli imbottigliamenti unchill-filtered sappiamo già tanto. Sono l’espressione più naturale del whisky, che preserva tutte le qualità che si sono sviluppate in fermentazione e concentrate in distillazione.

 

Perché il whisky è chill-filtered?

Quello che ci è sempre stato raccontato, e che abbiamo assunto come Vangelo, è il bisogno di preservare la limpidezza e luminosità del distillato anche a basse temperature. Le lunghe catene di oli e di grassi che si sviluppano nell’alambicco – strumento sviluppato dagli arabi per produrre appunto oli essenziali – hanno la cattiva abitudine di manifestarsi a temperature prossime allo zero.

È l’effetto della bottiglia di olio lasciata in cantina durante i freddi mesi invernali o messa per sbaglio in frigorifero: l’olio solidifica. Gli oli del whisky sono mantenuti disciolti in soluzione dalla elevata gradazione alcolica, un efficace solvente.

Dove è il problema? Negli americani! Il loro abituale consumo di whisky on the rocks o in highball sottopone il whisky a temperature molto fredde, ed ecco che il pregiato Scotch si trasforma in una brodaglia torbida e perde immediatamente buona parte del suo fascino.

Stesso feeling per i giapponesi, divenuti grandi consumatori di scotch, che preferiscono il loro mizuwari limpido.

 

Cosa è la filtrazione a freddo

L’industria ha inventato un efficace stratagemma per combattere la delusione del consumatore più spendaccione del pianeta.

Durante l’imbottigliamento il whisky viene filtrato allo scopo di rimuovere tracce solide del carbone delle doghe, un pulviscolo che si deposita sul fondo della botte e che si distribuisce nel liquido nel momento in cui viene prelevata dal magazzino dopo anni di profonda meditazione.

Una pratica diventata comune negli anni ’80.

 

 

Il trucco è semplice. Si raffredda il whisky che si sta per imbottigliare ad una temperatura prossima allo zero, provocando la solidificazione degli oli che non potranno che schiantarsi contro il filtro di cellulosa ed essere rimossi dal whisky che finisce in bottiglia. Nessun olio, nessuna perdita di eleganza nel bicchiere, americano felice.

La tecnica del filtraggio a freddo, appunto. La si può facilmente effettuare raffreddando il tino di marrying in cui è stato assemblato il whisky prima dell’imbottigliamento, una pratica effettuata solo dalle piccole distillerie perché richiede tempi molto lunghi. Le linee professionali di imbottigliamento, che lavorano centinaia di litri al minuto, non possono permettersi queste lunghe attese e si limitano a “congelare” a temperature molto basse il tubo che porta il liquido verso le bottiglie. Basteranno i pochi secondi di attraversamento per far raggiungere al distillato la temperatura desiderata.

Tutti felici? Assolutamente no, visto che quegli “oli essenziali” che sono stati rimossi sono in teoria i principali veicoli per il trasporto degli aromi dalla distilleria al bicchiere. Bicchiere che conterrà quindi un liquido cristallino ma impoverito.

Da qui il bisogno di tutelare le classi più nobili di distillato, come i single malt scotch whisky, evitando di sottoporle alla pratica impattante del filtraggio a freddo. E visto che si rischia di deludere alcuni consumatori, è bene scrivere in etichetta che il whisky è unchill-filtered e in retroetichetta l’ammissione di colpa “Il whisky rischia di diventare torbido se sottoposto a temperature basse, non è un difetto del prodotto ma testimonianza della qualità naturale del prodotto”.

Tra gli appassionati l’unchill-filtering è subito diventato testimone di una lavorazione di qualità superiore. Un “brand” molto forte.

 

La gradazione del 46%

Raramente troveremo un whisky unchill-filtered imbottigliato ad una gradazione inferiore al 46% abv. Da questa gradazione in su, qualcuno sostiene dal 46,5% o dal 47%, la quantità di alcol sembra essere sufficiente per mantenere disciolti gli oli alle temperature basse dell’on the rocks. L’effetto è quindi quello di avere preservato gli aromi e la limpidezza nel bicchiere. La maggiore gradazione alcolica garantisce anche un più ricco olfatto e una migliore struttura al palato.

 

 

I tre imbottigliamenti in fotografia, lasciati in auto durante una rigida notte invernale, rappresentano un imbottigliamento commerciale al 40% filtrato a freddo (al centro) e due selezioni unchill-filtered imbottigliate rispettivamente al 46% (a sinistra) e alla gradazione di botte del 53.4% (a destra). Così tutto è molto più chiaro, vero?

È la combinazione tra bassa temperatura e bassa gradazione alcolica che può rendere torbido il whisky. Un “incidente” che si può manifestare anche a temperatura ambiente in una bottiglia aperta da anni che ha perso, per evaporazione, una parte significativa della gradazione alcolica.

 

 

Gli effetti sul whisky?

Quali effetti ha il chill-filtering su un dram di whisky? Tutto facile, un whisky non filtrato a freddo sarà sempre più complesso e masticabile, più naturale, in definitiva più “buono”.

Questo almeno è la teoria; la pratica riserva in realtà più di una sorpresa. Lasciamo perdere gli studi condotti dall’industria, tra gli appassionati è cresciuto il bisogno di dare una risposta certa a questi dubbi. Avendo a disposizione una quantità smodata di imbottigliamenti, alcuni filtrati e altri no, non è restato che testare gli organi sensoriali di panel qualificati allo scopo di verificare quale riscontro potesse avere la pratica del chill-filtering sulle percezioni di palati allenati.

Sono almeno due i casi che hanno fatto letteratura.

Whisky.com ha selezionato 24 imbottigliamenti unchill-filtered, ha prelevato metà liquido da ogni bottiglia e lo ha sottoposto a filtraggio a freddo. Il gioco stava nell’individuare alla cieca quali tra i 48 campioni fossero filtrati e quali no. Il risultato è interessante: i 111 degustatori non hanno saputo riconoscere i campioni unchill-filtered. Una media del 50% dei campioni è stata correttamente identificata, è la stessa probabilità del lancio di una moneta, un risultato chiaramente deludente. Per i nerd, la ricerca completa è disponibile qui.

Anche uno studio precedentemente condotto dai Malt Maniacs, che hanno assaggiato alla cieca diversi whisky filtrati e non, si è concluso con l’affermazione che non è possibile giudicare dal gusto se un whisky è filtrato o meno. È addirittura emersa una preferenza del panel verso i whisky filtrati.

Appurato che il whisky filtrato a freddo non ha un sapore diverso rispetto a quello del whisky non filtrato e che il whisky non filtrato non ha un sapore migliore, possiamo solo accontentarci del romanticismo di chi rispetta il distillato senza applicare operazioni guidate solo dal marketing?

Whisky Science ha pubblicato nel 2014 un articolo in cui dichiara che “gli esteri a catena lunga che generano con il freddo l’aspetto torbido del distillato non sono in realtà molto aromatici, ma conferiscono solo pochi aromi floreali, fruttati e cerosi. Il loro principale contributo è la sensazione tattile al palato, con una maggiore texture cerosa e oleosa”.

Aggiungo che alcuni distillati migliorano grazie al chill-filtering. Non parlo della vodka, che commercialmente ha sempre necessità di essere super limpida e “leggera”, ma anche di distillati come la grappa che trascinano in distillazione una quantità significativa di oli di flemma che ne appesantiscono il carattere. È pratica comune filtrare a freddo le grappe, soprattutto quelle aromatiche, che ne escono più eleganti e con maggiori richiami agli aromi primari.

Poi ci sono gli americani, che – distillando a colonna a ritmi da Superman – hanno sempre necessità di pulire i loro whiskey. Chi adotta il filtro a carboni di acero, come nel Tennessee whiskey, non riesce ad essere molto selettivo e rimuove un po’ tutto. Distillerie come Michter’s credono nell’importanza del filtraggio a freddo e non si vergognano a dichiararlo come un pilastro del loro processo produttivo. Per loro è una pratica molto più gentile del carbone, che può essere personalizzata per ogni prodotto e che è realmente in grado di rimuovere solo le “cose cattive”.

Gli unchill-filtered bourbon, definiti i “vini naturali” del whiskey, sono sempre più diffusi. Non solo tra i distillatori artigianali che, imbottigliando in casa, non possono permettersi i costi di un impianto di chill-filtering, ma anche tra gli imbottigliamenti mainstream. Solo marketing?

 

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