Barley, Perugia

Barley, Perugia

Nel pieno centro di Perugia, in Piazza Matteotti, lo scorso 4 luglio ha aperto il primo American Bar Agricolo d’Italia: Barley.

 

 

“È stato un processo lungo.” spiega Marco Farchioni, mente e cuore del locale “Avevo ben presente come lo volessi, e quando ho trovato il posto ideale ho aspettato un anno e mezzo perché la precedente proprietà lo liberasse. Poi sono occorsi un altro paio d’anni per gli aspetti burocratici, ma finalmente l’ho aperto.”

Oltre un centinaio di posti a sedere tra interno ed esterno, e un piano superiore per il momento chiuso ma per il quale Marco ha dei piani ben precisi.

“Voglio seguire quello che è un po’ lo stile inglese, dedicando il primo piano alla didattica, con corsi al lunedì dedicati ai ristoratori: Master sul vino umbro, sul whisky, sulla birra, con l’obiettivo anche di creare dei club a tema, i cui soci tra l’altro decideranno le referenze del locale. Per esempio, oggi ho 60 whisky a scaffale: quando ne finisce uno, il club si riunisce e decide con quale sostituirlo. E lo stesso per i vini, solamente umbri. Poi al mercoledì fare dei corsi per gli stranieri, che a Perugia non mancano.”

 

 

Un progetto articolato e complesso, una startup da replicare anche in altre località italiane, sempre concentrata sulla matrice umbra dei prodotti, coinvolgendo anche le aziende di famiglia, quella vinicola e olearia (Farchioni1780) e quella birraia con Mastri Birrai Umbri. Proprio da quest’ultima provengono le materie prime per i distillati prodotti per il locale.

 

 

“Faccio fare gin, vodka e bitter presso aziende selezionate, facendo inserire il mio ingrediente segreto: il luppolo umbro.” spiega Marco “Lo metto in infusione, concentro la base alcolica, lo distillo e lo faccio aggiungere ai distillati per dargli il tocco personale e agricolo.”

E poi c’è Barley, il distillato di birra che ha ispirato il nome del locale, realizzato a partire da una birra agricola (American Strong IPA) prodotta ad hoc, con alambicco in rame a caldaietta e senza invecchiamento.

“Uso un alambicco che faceva grappa,” spiega Marco “ma non voglio farlo più, perché alla fine l’impronta della grappa resta nel prodotto finito.”

 

 

Perché l’obbiettivo finale, il più ambizioso, è quello di fare whisky.

“Mi ero fatto fare dei preventivi per degli alambicchi in stile Coffey, ma poi ho fatto il Master di Secondo Livello di whisky del Club, e lì ho capito che dovevo ripensare tutto! Girerò la Scozia per capire bene cosa voglio fare e come, perché voglio creare qualcosa di diverso, che abbia una chiara matrice italiana, con uno stile più pulito.”

E con il distillato di birra che giocherà un ruolo fondamentale.

“Voglio uno stile rude ma fine, con più aromi possibile, lavorando molto sui lieviti. E con un asso nella manica: il malto da orzi antichi umbri. Con i nuovi alambicchi continuerò anche a fare il Barley, ma avrò bisogno di un alambicco che trattenga molto, che faccia un distillato pulito quando voglio e sporco quando voglio, dovrò fare un sacco di studi e di prove.”

Un progetto con una visione molto lunga.

“Per quello che ho in mente io, ci vorranno 20 anni, almeno 10, io di certo non ho fretta: voglio che sia una cosa straordinaria e che sia mia, e che quando uscirà sia esattamente come la voglio. Per aprire Mastri Birrai Umbri abbiamo iniziato le prove nel 2007, con la prima birra commercializzata ad aprile del 2011, e parliamo di un prodotto che per farlo ci vogliono 8 settimane. Il primo top di gamma del nostro Sagrantino l’abbiamo fatto uscire nel 2017, ma abbiamo iniziato a lavorarci nel 2003: 14 anni per trovare quello che avevamo in mente.”

Ma le idee sono già molto chiare.

“La distillazione vorrei farla nel piccolo castello di famiglia, ho messo un paio di colonnine in tre punti diversi per capire unità e temperature. Per le botti userò quelle ex vino, che intendo rasare per poi bruciarle per un minuto, e con la parte rasata farci l’affumicatura dell’orzo nella malteria che ho acquistato. La mia idea di base è di fare due tipologie di invecchiamento, una più breve nelle segrete del castello e una lunga a Norcia, presso dei monaci benedettini, dove si stagionavano i prosciutti. Ho già registrato i nomi: il primo sarà 1103, come l’anno della fondazione del castello, l’altro invece Abbazia San Benedetto.”

 

 

Tutto sempre con la tua impronta ben precisa.

“Anche in questo locale, persino in bagno, non c’è una cosa che non sia personalizzata: il vetro, la carta da parati, la stoffa che ho fatto fare sulla base di un mio disegno. Tutto è molto personalizzato. Perché oggi il mondo dell’alta gastronomia, e il whisky è gastronomia, ha poche regole, che stanno sulle dita di una mano: bello, profumato, buono, locale e digeribile. Nel whisky la digeribilità è data da un contenuto di metanolo non tracciabile, con un taglio del cuore molto stretto purché non si buttino via aromi e profumi, altro motivo per cui non voglio più usare un alambicco da grappa.”

Che lavorazione hai in mente?

“Io vorrei partire da un doppio masher, uno per fare spirito e l’altro per spingere sulle fermentazioni, arrivando fino agli 8 giorni, con doppi lieviti: il primo per iniziare, il secondo “killer” per chiudere il cerchio dell’altro. Per gli alambicchi, voglio un wash still piccolo, da 2.000 litri, e a seconda del risultato mandarlo in due diversi spirit still da 1.000 litri. Poi, due linee di whisky: quello molto invecchiato in abbazia, e quello giovane, il 1103, dai 3 ai 5 anni utilizzando botti molto spinte anche di vini prodotti dalla cantina di famiglia, Terre De La Custodia, dove sono passati vini importanti già premiati da 3 Bicchieri come Exubera o il Passito di Sagrantino. Sto anche pensando di creare un vino ad hoc, visto che ho questo grande vantaggio: ho la cantina, ho il vino, ho il birrificio e la materia prima, se non lo faccio io il whisky, chi lo deve fare?”

Su un orizzonte temporale molto lungo.

“La progettazione è molto complessa, articolata, perché voglio fare una cosa che sia unica: il tempo non mi manca, non ho fretta di fare qualcosa fatto bene. E secondo me, il whisky artigianale italiano esploderà nel 2030.”

Mettere su carta quel vulcano di idee che Marco ha messo insieme in meno di un’ora di chiacchiere è stata dura, ma credo si riesca a percepire l’entusiasmo e la passione che mette nel suo progetto e che sicuramente lascerà il segno.

Anche se solo fra un po’ di anni.

 

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