Albania, tradizione e innovazione

Albania, tradizione e innovazione

Giusto trentatre anni fa, l’8 agosto del 1991, a Bari avveniva lo sbarco di un’imbarcazione proveniente da Durazzo (Albania), con circa ventimila persone a bordo in cerca di migliori condizioni di vita.

Era successo che il giorno prima questa nave mercantile, la Vlora, Valona in albanese, mentre sbarcava il suo carico di canna da zucchero nel porto di Durazzo, venisse, letteralmente, assaltata da migliaia di disperati che imposero al comandante, Hilam Milaqi, di salpare verso l’Italia.

Qualche tempo prima era caduto il Comunismo in Europa ed era crollato il Muro di Berlino (1989), fatti che avevano consequenzialmente condotto alla caduta anche del dittatoriale regime albanese guidato da Enver Hoxha che aveva governato per quattro decenni, lasciando macerie: tra il 1945 e il 1990 furoni condannati a morte almeno 5000 uomini e 450 donne, oltre 34.000 imprigionati, di cui almeno 1.000 morti durante il carcere.

Esistono dei luoghi simbolo a Tirana da vedere, i bunker antiatomici e paranoici edificati dal Dittatore, oltre che la famosa “Casa delle Foglie”, dove la Sigurimi, polizia segreta albanese, deteneva e torturava i sospetti di eresia politica e potenziali combattenti del regime, poveri uomini e donne, di cui spesso ancor oggi i familiari cercano le spoglie.

Ebbene, quel giorno del 1991 avvenne lo sbarco, ancor oggi il più massiccio di poveri disperati mai avvenuto in Italia.

Celebri le parole dell’unica autorità istituzionale che affrontò il marasma causato dalla necessità sanitaria di accogliere una tale massa di persone, ossia l’allora sindaco di Bari, Enrico Dalfino: “Sono persone, persone disperate. Non possono essere rispedite indietro, noi siamo la loro ultima speranza”.

In realtà fu la popolazione locale a cercare di affrontare l’emergenza e solo 1.500 dei ventimila sbarcati rimasero in territorio italiano, gli altri furono rimpatriati.

Occorre partire da qui per raccontare perché ancora oggi gli Italiani, nonostante durante la seconda guerra mondiale avessero invaso il territorio albanese, siano molto amati. Parlano correntemente la nostra lingua, sono invasi da catene di negozi italiani, provano ad aiutarti in ogni modo per qualsiasi necessità tu abbia.

Così capitiamo in un ristorante albanese rinomato e la titolare ci prenota, al termine di una gustosa cena nella città patrimonio Unesco Berat City, una degustazione presso una delle aziende vitivinicole più interessanti e innovative del Paese, la Kantina Nuvellari. Data la sua amicizia con l’enologo, disturbato alle 23 di sera per accogliere due sommelier italiani, riesce a prenotare una visita per il giorno successivo. Il tutto non senza averci fatto assaggiare il suo raki, vero tempio della tradizione alcolica albanese, il distillato di frutta, che ogni famiglia albanese deve crearsi da sola, in modo da distinguersi da quello che fa il vicino.

 

 

Il suo contenuto alcolico è di norma intorno ai 65 gradi, è creato attraverso fermentazione e successiva distillazione di frutta, un prodotto popolarissimo in tutti i Balcani.

Quello assaggiato nei vari ristoranti in Albania, è quasi sempre un’acquavite di uva, cui in alcuni casi, dopo la distillazione possono essere infusi altri aromi o frutti, soprattutto le noci, per ottenerne degli alcolici che a volte assumono un colore ambrato, grazie ai passaggi in legno francese anche di qualche anno, nelle distillerie o nelle Kantine più importanti, dotate di una barricaia, normalmente utilizzata per l’affinamento dei vini.

 

 

E quì occorre dire che spesso le aziende vitivinicole del Paese distillano e sono dotate di simpatici alambicchi che spesso non hanno l’eleganza degli Charentais francesi, ma che sono comunque molto efficaci per creare uno spirito gradevole, fresco che ricorda un’acquavite di uva molto alcolica, con delle leggere punte acidule, spesso domate da un affinamento lieve o più lungo nei legni a disposizione.

 

 

Apprendiamo dunque nella degustazione in Kantina Nuvellari che l’enologo, come spesso avviene per le aziende del settore in Albania, si è perfezionato in Italia e ha creato una linea di vini che vuole coniugare vitigni internazionali come il Montepulciano, il Merlot o il Cabernet Sauvignon, con degli autoctoni interessanti come il Debina a bacca rossa, anche denominato Lavardar White, coerente al naso e al palato con i suoi sentori fresco-sapidi di pompelmo, agrumi e fiori bianchi, il Pules, bianco dall’interessante struttura acidula, che mi ha ricordato la nostra Verdeca, il Debina a bacca rossa o Lavardar Red e l’interessantissimo Serina, rosso da cui viene derivato un fragrante rosato.

 

 

E tuttavia… la degustazione avvenuta dopo il giro per la kantina, l’illustrazione dei processi enologici e la visita in barricaia, non può non concludersi se non con il fiore all’occhiello del produttore: il raki.

Lo assaggiamo nella sua declinazione bianca, non affinata, e poi in quella aromatizzata con noci, Arrabon, affinata per cinque anni in legno francese, con i suoi quaranta gradi di volume e la sua denominazione in etichetta come walnut raki. Orgogliosamente il figlio del fondatore dell’azienda, dopo l’interessante introduzione teorica dell’enologo, ci tira fuori la foto dell’alambicco del padre, che lo produce come ogni buon padre di famiglia albanese da tempo immemorabile.

 

 

Ed è bello vedere in questa kantina, dall’architettura e design di un noto architetto argentino, come la ricerca delle tecniche agronomiche ed enologiche evolute e di scuola europea, si coniughi con la tradizione di un distillato, che viene prodotto, senza soluzione di continuità, da secoli nella tradizione e nel folklore albanese. Un po’ simbolo di questo Paese che desidera entrare in Europa, che accetta ed auspica gli Euro, ma ancora piacevolmente rurale nell’entroterra e in veri gioielli sociali ed architettonici come Argirocastro e Berat, lontani dalla più cosmopolita Tirana, probabilmente già più ancorata ai trend di vita europei.

Un Paese in cui è ancora possibile cenare a base di ottimo pesce con quindici euro a testa anche nei migliori ristoranti della capitale, non senza finire, obbligatoriamente, con un buon raki, altrimenti il titolare si arrabbia e ti dice in perfetto italiano “mica sarai astemio!”

Ecco no, proprio no, non sono astemio e tiro giù un altro raki, pensando già ad un altro trip to Albany per visitare castelli e piccole città, magari questa volta del Nord, per un viaggio in territori in cui il nostro cellulare non funziona e si è liberi, per pochi giorni, dalla tecnologia. Avvolti dalla magia del Raki.

 

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